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Dialogo di un lettore di varia umanità con una scrittrice fuori dal coro
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Gabriella Schelotto scrittrice

fuori dal coro

 

 

 

Dialogo

 

 tra un lettore di varia umanità

 e una scrittrice fuori dal coro

 

 

-          Lettore: ho appena terminato il tuo libro e  mentre procedevo nella lettura constatavo con qualche stupore la mancanza degli ingredienti tipici della moderna narrativa italiana. Hai scritto poco più di 180 pagine che si leggono d’un fiato poiché ad ogni capoverso vi è qualcosa di nuovo e di imprevedibile. Magari con la ricetta di qualche autore che vende migliaia di copie potevi tranquillamente arrivare a 4 – 500 e ricevere il plauso di quei critici che scrivono su giornali che per prudenza non nomino, senza avere fatto la fatica di leggere.

-  Scrittrice: mi incuriosisci; anzitutto perché ti presenti come lettore di varia umanità, poi su quali presupposti condanni senza attenuanti scrittori e critici; infine quale ricetta dovrebbe consentire di riscuotere applausi non meritati?

- Lettore: le domande le faccio io perché sei tu l’autrice che ha preso la penna convinta di aver qualcosa da comunicare agli altri; però qualche parola di presentazione te la devo; varia umanità perché le mie letture spaziano dai classici ai moderni, sempre alla ricerca di aver risposta a taluna fra le domande che assillano chi si accorge che la conoscenza serve soprattutto ad avere la misura della propria ignoranza; quanto alla generalità degli scrittori e dei critici …sono ormai abbastanza esperto dei molti vizi e del poco valore umano; la ricetta penso che tu la conosca benissimo; se insisti te la riferisco solo per verificare fino a qual punto le nostre valutazioni coincidano.

-  Scrittrice: insisto.

-  Lettore: 5 grammi di idea, non necessariamente originale, meglio se ripresa dai suggerimenti di qualche opinion maker, 20 grammi di coprolalia, 30 grammi di amori omosessuali, meglio se tribadici, 20 grammi di droga leggera o pesante, meglio se sintetica, 15 grammi di denuncia delle colpe ascrivibili alla società, 10 grammi di rimpianto per il mancato conferimento dei poteri necessari a riformare il mondo a quegli stessi soggetti di volta in volta indicati dai soliti rimestatori di opinioni politicamente corrette. Vi sono ottime prospettive di una recensione entusiastica su qualche quotidiano che evito di nominare e di acquisto da parte dei frequentatori di quei salotti ove si parla di quel che si ignora. Il tuo romanzo è invece un libro pulito, ove tutti gli eventi sono “normali,” e appunto per questo fuori dal coro. Raro tentativo di far da soli, senza ripetere lamentazioni e proteste trite quanto lontane dalla realtà. Hai fatto bene a scrivere come hai scritto. Ma non dirmi che non sapevi di andare contro corrente con tutti i rischi che ne conseguono.

-Scrittrice: Non avrei potuto fare diversamente. So di non dir nulla di nuovo: scrivere è stata -ed è- un’esigenza. Quando scrivi, hai davanti la pagina bianca e un impulso più forte di te, ti spinge a riempirla (al di là del labor limae, che è ancora un altro discorso,diverso, ma non in conflitto con il desiderio di scrivere…se continuo così, eludo la domanda…ce ne vorrebbe una ad hoc.)

Dunque con la pagina davanti  sei completamente solo: non pensi, non ti importa se non degli infiniti mondi che hai dentro, dei personaggi  diventati, intanto, una parte di te e che tu sistemi, fai muovere e parlare come un regista i suoi attori; un tutt’uno con te , ma dispersi … E così, stemperati in te, attraverso le loro proprie caratteristiche, le debolezze, i lati oscuri del carattere, continuano ad avere vita propria.

La sensazione è pari a quella di leggere ad alta voce davanti ad una platea: sai che è lì , te ne senti attorniato, ma ti rendi conto che, se anche non ci fosse, se parlassi nel vuoto, neppure una parola, una frase, così come l’intonazione della tua voce ne sortirebbe mutata. Questa platea potrebbe  identificarsi con l’infinito e non cambierebbe nulla. E nulla e nessuno riuscirebbe  a farti volgere lo sguardo, modificare la posizione delle mani o la postura di tutto il tuo corpo, mentre leggi. Si, parlo di “leggere” perché scrivere è leggere dentro di me e trascrivere quello che è pronto e aspetta di uscire allo scoperto.

Non so se ti ho risposto, ma per me è questo l’andare contro corrente e ne sono consapevole, ma non ho alternative.

-Lettore: eserciti la professione forense e quindi per lavoro devi sicuramente scrivere molto; ricordo che nell’introduzione ad una delle tante edizioni del suo insuperato Manuale di Diritto Processuale Civile Salvatore Satta affermava che nei primi 50 anni del ventesimo secolo i grandi prosatori in Italia si potevano trovare solo fra i giuristi. Forse egli si riferiva ad opere giuridiche scritte in un linguaggio estremamente chiaro ed entusiasmante per la sua eleganza. Mi vengono in mente Francesco Carnelutti per la Teoria Generale del Diritto, Santi Romano per i Frammenti di un Dizionario Giuridico, Emilio Betti per la Teoria Generale dell’interpretazione, e ancora i testi istituzionali del Torrente, dello Zanobini, dell’Antolisei. Qualche giurista insigne si è cimentato con prosa non giuridica, penso a Carnelutti per le conversazioni dal titolo “Il Sole si leva al tramonto” e allo stesso Salvatore Satta che giovane avvocato aveva scritto quel romanzo ormai esaurito e reperibile solo sul mercato dell’usato, “La veranda” e, quando già sentiva vicino il soffio della morte lasciò in un cassetto il dattiloscritto di quel “Giorno del giudizio” divenuto un classico letterario e tradotto mi pare in 17 lingue. Ma non sono qui per dar conto delle mie letture. Ti chiedo se la lunga dimestichezza con lo scrivere, connaturale alla professione forense, ha in qualche modo influito sul desiderio di scrivere per te stessa e non per lavoro.

-  Scrittrice: chi si decide per una professione come la mia (parlare di scelta mi sembra eccessivo perché la scelta implica un margine di libertà ben più ampio), si muove, comunque, supportato dalla consapevolezza che proprio “nello scrivere” si risolverà tanta parte del proprio lavoro; preceduto dall’ascolto, dallo studio, dal ragionamento, etc., s’intende.

Col passare del tempo, non posso escludere un’interferenza più diretta del mio lavoro sull’idea di scrivere d’altro: ogni vicenda da affrontare è un unicum, umano ed esistenziale, sempre diverso. Poiché non si trova mai una questione esattamente sovrapponibile ad un’altra, il venire a contatto con tante storie diverse e il percepire che, non di rado, ci si rivolge all’avvocato per l’incapacità di mettersi in discussione… fa pensare.

Il dirsi: ”Vado dall’avvocato … perché ho ragione e lui potrà dimostrarlo!” E’ assai frequente e, in tal modo, si tenta di demandare ad un’ipotetica soluzione giuridica la risoluzione di  problemi di tutt’altro tipo. Non è fantascienza. E’ esperienza sul campo.

E’ così che il lavoro ti stimola a guardarti dentro, scavalcando i limiti, comunemente ritenuti invalicabili, di una professione per il cui esercizio, è stato detto, occorrerebbe essere “senz’ anima”. Ecco, in questo senso, il lavoro ha  avuto la sua parte. Ho sempre la sensazione di “ andar fuori tema”, ma, se vuoi domandare altro, prego…

-Lettore: qualcuno ha già notato che il romanzo sembra un collage di racconti ma quando si va avanti nella lettura si scopre un preciso filo conduttore. L’ordine dei capitoli non segue un rigoroso ordine cronologico e peraltro le retrospettive sono sovente le parti meglio riuscite. Quando hai cominciato a scrivere avevi in mente una “struttura” oppure te la sei costruita mentre andavi avanti nel lavoro?

- Scrittrice: ti dirò che qualcun altro ha ritenuto addirittura “improprio”definire romanzo il mio lavoro, senza alcun altro tipo di  contestazione, bontà sua…

In realtà, quando ho cominciato a scrivere, avevo già abbozzato dentro di me un programma, quantomeno avevo pronta una specie di “scaletta”(qui davvero i miei studi, mi piace dirlo, mi hanno aiutata: ho pensato che, senza uno schema, non sarebbe stato possibile lavorare).

C’era, dunque, un contenitore che avrei riempito, uno spazio con confini temporali già decisi: sapevo esattamente da dove far partire la storia (e, in parte, le storie nella storia) e dove farla terminare. E c’era il tema, già assegnato: non potevo e non volevo scrivere comunque e di qualunque argomento. Il luogo e i luoghi erano precisamente quelli che mi sono sforzata di descrivere.

Se vogliamo poi parlare di come il lungo racconto (o il romanzo breve?) si è snodato attraverso la storia di ciascun capitolo, posso dirti che il lavoro di “trascegliere”si è compiuto, per lo più, da solo, in itinere. E questo ha sorpreso anche me, mentre liberava la non più creduta opportunità di un viaggio a ritroso che, stazione dopo stazione, pur nell’estenuante fatica dello scrivere (perché ogni parola, ogni frase, ogni periodo, ogni punto ed  ogni virgola dovevano restituirmi, ad una rilettura, tutto e solo quello che desideravo ritrovare: intatto e pienamente rispondente, per quanto mi era possibile) a quel che volevo esprimere, far uscire…

- Lettore: pare che il giardino fosse proprio come lo hai descritto eppure la narrazione sembra frutto di fantasia, come se tu volessi raffigurare qualcosa che hai costruito e idealizzato; hai mai pensato di costruire una storia del tutto avulsa dalla realtà con personaggi immaginati al di fuori di qualsiasi collegamento con la realtà che hai vissuto?

- Scrittrice: Si. Ci ho pensato. E non poche volte, ma ho sempre scartato l’idea. Non escludo, dopo l’esperienza del “Nespolo…”di misurarmi con qualcosa di “più scollegato” rispetto al mio vissuto. Però vorrei rispondere a questa domanda con Flaubert:” Madame Bouvary ce moi…” In ogni scritto c’è sempre e comunque un denso distillato della vita dell’autore, delle sue esperienze, dei suoi condizionamenti e dei suoi sogni.

-  Lettore: l’avvocato è spesso a contatto con gli aspetti più turpi dell’uomo e proprio per questo ha una conoscenza dei molti altrui vizi e del poco valore. Hai mai pensato a scrivere una storia vera, vista però dall’angolo visuale di chi la interpreta e la valuta costruendosi una giustificazione e cercando di difendersi dinanzi al proprio avvocato prima ancora che dinanzi al giudice?

-  Scrittrice: Bella domanda questa per chi fa parte, volente o nolente, di una categoria (non sempre a torto) biasimata, all’interno della quale o, nonostante la quale, si sforza, spesso con lo scarso apporto delle norme (sempre troppe e spesso inique) di ripristinare un barlume di ordine in quella che è “l’infinita vicissitudine”, “la perenne tribolazione”, insomma la “grande causa” senza vincitori né sconfitti, dove si scontrano, si amalgamano, si ricompongono per tornarsi a scomporre i cosiddetti “diritti” degli uomini …

Il discorso mi ha preso la mano e torno indietro alla domanda secca.

Si, assolutamente. Dallo scorcio di cielo della mia trincea, ho sovente almanaccato su alcune realtà a portata di sguardo: chi va dall’avvocato è, soprattutto, prontissimo a riversargli addosso, quasi e soltanto, tutto quello che, ai fini del risultato cui tende (o immagina di tendere) è pressoché ininfluente. Tace (ritenendolo un suo diritto inviolabile) sulla realtà (e non dico verità) e perfino su qualche elemento di fatto in più. Per l’avvocato, si tratta allora di “intuire” per riuscire a cavare un senso da questa congerie.

Si apre così  un ventaglio di idee passibili di essere sistematizzate in uno racconto: il passo è breve, come puoi bene immaginare …

 

 E domani?

 

 

 

 

 

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