e.mail: alfaquilae@gmail.com

 

 

 

 

Il giardino segreto



Il giardino era grande bello e invidiabile.
Le bambine se ne resero conto quando erano tre donne fatte, ognuna per la sua strada.
Questo ritardo non ostacolò la percezione della straordinarietà del luogo quale naturale ampliamento della casa, contrada autonoma, inesplorata, tutta da conquistare. Un territorio dai confini mobili e indefiniti, ricco di innumerabili spazi dell’essere, disseminato di costruzioni e recessi: alcuni incutevano sconcerto e furono perlustrati per ultimi con la fretta suscitata dalla paura.
Uno, il sottoscala buio e ingombro di attrezzi da giardinaggio dimenticati; per quanto angusto, sembrava non avesse un fondo. L’altra, la cantina con la finestra alta difesa da una grata, chiusa dietro una porta di legno grezzo lasciata incompiuta per chissà quale accidente e che si apriva alla rovescia con una chiave di ferro grossa e arrugginita. Dentro vi stagnava un odore acre e vi stettero rinchiusi oggetti bizzarri, misteriosi e inutili: non si potevano buttare via.
Gli spazi aperti erano movimentati da rocce. Alcune in forma di sedili. Fiori sparsi delle specie più variate. Aiuole e vialetti, strade di una città rigogliosa sottratta a un sogno. E prati, terrazze, poggioli.
Il terrazzino col pergolato intessuto di glicine e roselline gialle.
Ringhiere affacciate ovunque: sul bosco, sul prato coltivato per metà a orto, sull’aiuola che affiancava il breve tragitto verso il terrazzo.
E tante scale!

Le scale ripide e consumate di ardesia scendevano in giardino; le scale di pietra salivano dolci e incurvate fino al terrazzo grande; le piccole scale in cemento, impresse di minuscole rientranze a puntini, raggiungevano la soglia del terrazzino coperto e con le pareti tinteggiate di rosso ormai sbiadite al tempo in cui le bambine lo arredavano rozzamente e lo trasformavano in un’altra casa.
Due allori delimitavano in modo asimmetrico il giardino, enormi come baobab.
Uno, piantato a ridosso della facciata, si era allargato nel fusto ed espanso senza limiti: le sue fronde raggiungevano il secondo piano della casa, ombreggiando la camera della nonna e immergendola in una gradevole e perenne semioscurità. L’altro, lasciava affiorare le radici robuste e tentacolari lungo il muro di cinta al lato estremo del terrazzo, crescendo sul confine con la villa del medico.
La potatura di questi giganti era evento eccezionale, vissuto con molta preoccupazione. Intervento sempre rimandato, lasciava negli abitanti della casa il senso di una mutilazione ingiusta.
Accadde (non più di due volte in tanti anni) che gli incaricati, raccattati all’ultimo momento per il compito di potare gli allori, ne recidessero senza riguardo fronde e tronco. Le piante ricrebbero, ma nel frattempo il lutto s’era abbattuto sulla famiglia a significare come nel giardino ogni elemento avesse vita propria e fosse insostituibile.
L’immutabilità era la forza e l’essenza stessa di quel luogo nascosto. Quanto sopravviveva, incluse le poche sedie e gli sgabelli di ferro intrecciato, vecchi compagni del tavolo di graniglia compressa, sprigionava un’aura di sacralità ed era ancora utilizzato dalle bambine nei loro giochi.
Di piante ce n’erano molte.
Un oleandro ondeggiava nel limite estremo del pianoro sopra il terrazzo cui era congiunto dall’ennesima scala coi gradini alti e stretti, scavati nella roccia. I fiori rosa delle corolle folte di petali erano appariscenti e sopraffacevano le foglie ellittiche. La pianta, scossa dal vento o dall’intrufolarsi cauto delle bambine consapevoli dell’ambiguità di certe virtù taumaturgiche e venefiche, liberava il profumo dolce amaro dei fiori.
Messo a dimora in epoca recente, l’arbusto d’erba Luisa le attraeva di più; sottile, tutto foglie verde chiaro: a strofinarle lasciavano sulle mani un’essenza oleosa leggermente profumata di limone e menta, ma del tutto singolare.
Da quello stesso muro di sostegno al pianoro, sopra il terrazzo, sporgevano a ciuffi disordinati le violacciocche bordate di rosso e amanti del sole; per radicare e crescere si accontentavano di poca terra dimenticata dal vento e scoraggiavano l’intenzione di coglierle. Lo sguardo si perdeva tra le foglie aride e opache, dove restava catturato dai fiori, spettatori distratti di una vita trascorsa e restituita per un attimo ancora pulsante.
L’arancione carico delle calendule basse, dalle foglie appiccicose e arrotondate, saturava la vista con macchie di luce per il modo in cui le piante si erano raccolte in cuscini, spontaneamente, cosicché sembravano posati sopra le aiuole da una mano distratta. Le semenze leggere, col colore secco della paglia, erano buonissime da mangiare, più del pistillo bianco, dolce e fresco dei fiori di glicine, piumini violetti penzolanti a portata di mano.
Le piante di rose crescevano sparpagliate senza un criterio ed erano tutte della stessa qualità inglese profumata e adatta alla preparazione dello sciroppo zuccheroso di cui la nonna possedeva il segreto.
Verso la fine di febbraio, lungo il perimetro dell’aiuola rotonda del nespolo fiorivano i narcisi, dritti sul loro stelo, sussiegosi: le bambine ne facevano un mazzetto legato da fili d’erba piatti e incoraggiate dalla nonna lo portavano alla maestra.
Tutti gli alberi erano stati piantati dal nonno, anche quelli da frutto.
Un pero invernale se ne stava solidamente radicato nell’aiuola a forma di scarpone. Le pere avrebbero dovuto completare la maturazione sulla credenza della cucina. Staccate anzitempo dall’albero e addentate durissime, acerbe, legavano il palato e facevano salivare per l’inconfondibile gusto asprigno. Le nespole le mangiavano mature, restando arrampicate sulla pianta e accovacciate tra i rami per una consuetudine iniziata con destrezza dalla maggiore e imitata con un certo sforzo dalle sorelle. Erano dolci e una peluria leggera ricopriva la buccia giallognola, tesa sulla polpa dissetante e saporita. I due noccioli marroni, viscidi, identici, sgusciavano a terra e a volte sparivano dando vita a una nuova pianticella che non sopravviveva.
Sul nespolo alto, solido e accogliente, alla giusta stagione trascorrevano pomeriggi interi. D’inverno, le scalate all’albero erano interdette dalla preoccupazione di sciupare quel meraviglioso, smisurato bouquet fatto dalle foglie argentee e dalla fioritura in mazzetti bianchi e morbidi, simili alle stelle alpine.
Gli alberi di fico erano rinomati in tutta la parentela. I frutti, tra agosto e settembre, maturavano avvicendandosi tra le foglie scure, larghe e dalla forma inconfondibile. Quel raccolto pareva non esaurirsi. I fichi del giardino, perfetti nella forma, appena spaccati dalla goccia di resina dolce (un invito esplicito ad assaggiarne la polpa a grani arancioni) non ebbero eguali.
Le bambine esploravano i rami e, al modo dei funghi tra le felci, apparivano i fichi, lasciandosi docilmente staccare.
Le indigestioni profetizzate dalla nonna sottrassero spensieratezza alle mangiate, ma non ottennero l’effetto di scoraggiarle.
La vite d’uva moscatella coi lunghi grappoli stipati di acini piccoli e liquorosi correva abbarbicata alla rete divisoria del giardino, più piccolo e molto ordinato, del vicino: un sardo basso, magro, con due baffetti ridicoli sul viso caprino, del quale le bambine avevano un timore del tutto ingiustificato.
Nel punto in cui la vecchia vite aveva termine, dalla stessa rete di ferro arrugginito, si allungavano i rami cedevoli di un alberello vestito di fiori pallidi e delicati, intoccabili. La madre li chiamava“fior d’angelo”. Le bambine si avvicinavano per guardarli, incantate, e non ebbero mai il coraggio di sfiorarli con le dita, convinte che appartenessero veramente a una schiera di angeli.

 

torna a un nuovo libro
 

OoOoOoO