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II La casa





In famiglia erano in sei ad abitare la casa sotto il forte e a trecento metri dalla costa. La costa, nulla aveva a che vedere con la riva del mare: era un crinale, uno spazio attorno a cui si apriva a ventaglio la vista sui monti del Nord e sul mare, verso Sud.

Lo stesso mare lontano, ma presente come una sentinella, si delineava di fronte alle finestre e il suo colore era la risultante di tutti gli azzurri, di tutti i verdi, di tutti i blu, profondamente mescolati e poi fissati in quell’unica tinta sempre uguale e stabile al pari della sua superficie perennemente liscia, ferma e dritta: dalla riva nascosta alla vista, si estendeva fino alla linea dell’orizzonte.


Nei giorni di mal tempo il mare spariva e il vento si infilava lamentandosi alla maniera di una bestia ferita tra le colline e i monti scuri, indistinti quando stretti attorno alla casa, anziché soffocarla le alzavano attorno una barriera di protezione.

La pioggia, se scrosciava di notte, percuotendo traversa le persiane sprangate, accompagnava con discrezione alla soglia del sonno e la mattina, dal mare distante del porto risaliva il rumore della sirena di una nave e il risveglio era generoso di promesse.

Gala entrava in camera delle figlie e scostava le tende: attraversate dal primo sole, proiettavano sul muro trine di luci ed ombre; poi, dischiusi i vetri e spalancate con foga le persiane, prendendosene il merito: -Bambine! E’ bel tempo!- Annunciava.

La casa restava l’unico posto del ritorno dentro al ciclico rincorrersi delle stagioni.

D’inverno, la neve cadeva puntuale e riuniva una moltitudine di sentimenti per arricchirli di risonanze insolite, stemperando le emozioni dentro intimità mai tentate. Dai semplici atti quotidiani compiuti senza fretta e con il disimpegno dei rari momenti in cui è concessa una tregua, si irradiava una serenità interiore molto vicina alla pace. Fuori, isole di morbido bianco ridisegnavano il paesaggio dopo che le raffiche del vento notturno e furibondo avevano spazzati i fiocchi lenti e abbondanti, accumulandoli secondo scelte casuali e fantasiose.

In giugno, il bosco, chiamato così ancora dopo la guerra (le querce adulte con le foglie fresche e il tronco pulito erano state abbattute) si inondava di ginestre. I rami verdi simili a giunchi spuntavano tra i sassi in cespugli folti e larghi cosparsi di fiori piccoli, resistenti, odorosi e di un giallo lucente che riempiva gli occhi modificando completamente il panorama all’inizio dell’estate.

La fioritura allargata al bosco e ai dintorni diffondeva
un’irrequietezza smossa dal sentore della vita sul punto d’esplodere e dal desiderio conseguente e incoercibile di cose nuove. Lo scorrere accelerato del sangue e il battito del cuore si percepivano nel lieve, caldo pulsare delle tempie. Un languore sensuale, sconcertante, accordato alla spossatezza del primo caldo, tagliava le gambe e svegliava emozioni dense di presagi esasperati nella notte di San Giovanni.

Le rondini erano tornate da un pezzo e sulla fine del giorno si davano appuntamento nello spazio di cielo sopra la casa per sfogare l’istinto a un volo tenace, fatto di continui decolli e atterraggi senza fermate, in una coreografia da parata che si arrestava d’improvviso al calare della notte quando riunite in stormo si allontanavano, abbandonando il palcoscenico all’esibizione stentata e inquietante dei pipistrelli.

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