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Gabriella Schelotto scrittrice

fuori dal coro

 

 

Postfazione di Matteo Linardi

 

Il breve ma intenso romanzo si sviluppa all’interno di un panorama all’apparenza lineare ma, in realtà, pieno di retroscena degni di essere analizzati a mente sgombra.

Ambientato in un’ipotetica Liguria del secondo Novecento ancora legata a vecchi stilemi e poco recettiva a introiettare ciò che il boom economico avrebbe consentito in merito a confort e stile di vita; la vera protagonista della vicenda, sin da subito, risulta essere un’imponente villa di collina: antica, forse un po’ cadente, ma ancora austera e ricolma di fascino, nel proprio vestito “giallo sbiadito”. Una villa che porta con sé la Storia del secolo precedente, non essendo forse pronta a porsi come teatro di un “corso nuovo” entro cui i personaggi veri e propri si muovono ma essendo, senza dubbio, il vero legante della vicenda. Nell’opera, proprio la villa in collina si veste a festa come nella più classica delle usanze cinquecentesche ove la dimora di Alvise Cornaro (1) diventava il luogo della scena in cui prendevano vita le commedie del Ruzzante: proprio nella villa, infatti, si consuma una lenta tragedia delle più cupe in un perfetto connubio di amore e morte.

In questo luogo casa/teatro il tempo sembra fermarsi; ora comprimersi, ora dilatarsi secondo le necessità narrative dell’autrice da cui emerge un autobiografismo velato, accennato, ma mai ostentato, dove il lettore viene accompagnato per mano e lasciato in profondi dubbi fino agli ultimissimi capitoli. I luoghi sono riconducibili chiaramente a un paesaggio di Liguria (2): le colline, le scaglie di mare, le stradine irte e strette, senza mai dimenticare un fervente porto rigonfio di scambi commerciali dal sapore internazionale.

In questa realtà ovattata con tinte veriste e neorealiste, si ripresenta un quadro in qualche modo già visto: una versione riveduta e corretta in chiave novecentesca dei Malavoglia in cui la “Provvidenza” torna ad essere, non più una barca sgangherata eletta a vascello, bensì la virtù teologica espressa con i canoni manzoniani.

La narrazione, quasi mai cronologicamente lineare, avviene tramite una scrittura sintetica e precisa a cavallo tra un’ipotassi (3) ricercata di

stampo Oraziano e la miglior tradizione Neorealista di quel Calvino del Sentiero dei nidi di Ragno. Si evince altresì una forte compenetrazione dell’architettura romanzesca propria a Daniel Pennàc: il racconto dei fatti comincia in medias res e si sviluppa, quasi per episodi, in maniera vorticosa che si potrebbe definire“a macchia di leopardo”. Ciononostante l’opera mantiene una propria semplicità espositiva senza mai cadere in inutili ridondanze o in contraddizioni.

I personaggi sono per la maggior parte “morti che camminano”: bocciati senza possibilità d’appello, come la madre Gala, le sorelle Giovannina e Rosina che, pur facendo parte “dei buoni”, si smarriscono per strada lungo gli snodi del romanzo perdendo un profilo preciso che li renda organici al romanzo stesso, autocondannandosi, indirettamente, all’oblio. I comprimari, salvo rarissimi casi, sono anch’essi bocciati sul nascere: i vari zii, cugini, conoscenti, amici, non sono altri che una folla, un coro, un ensemble di natura jazzistica. La cornice quindi è volta ad amplificare un sentimento come la solitudine raffrontata ai nascenti concetti dell’epoca: l’alienazione e la società di massa.

Il romanzo stesso si sviluppa portando con sé un tema ben preciso: la morte. Da una prima lettura si comprende come l’opera si apra e si chiuda con estremi saluti: sono infatti la nonna Rachele e la nonna Angelica a dettare i contorni ideali e lo sviluppo temporale dell’opera.

All’interno del libro tutto è morte: le festività, i momenti che dovrebbero essere di spensieratezza, le amicizie infantili e persino il concetto di matrimonio diventa una palinodia. Proprio il matrimonio viene rovesciato dall’autrice che ne offre una visione come una fine e non un inizio, descrivendo le tre celebrazioni nuziali contenute nel romanzo. Attraverso un climax discendente che richiama con sicurezza un lessico evocante sentimenti propri ad una tumulazione, l’autrice stronca una delle timide possibilità del romanzo che preannunciano la vita.

La morte poi, continua a manifestarsi sia tramite forme a essa non consone come il matrimonio, sia attraverso un realismo ad essa più proprio: l’incidente stradale.

Alla morte viene contrapposto l’amore che è rappresentato da tre personaggi chiave i quali assumono rispettivamente tre forme cristologiche tutte diverse: la nonna Angelica, il padre Rocco e  in ultimo, Pietro.

La nonna è descritta tanto connotativamente quanto denotativamente dal proprio nome: Angelica. Ella è colei che dà un senso alla narrazione, colei che “è padrona del teatro” e quella senza cui, ovviamente, la continuazione del romanzo perde di significato; la sua morte è descritta tramite una lenta agonia, sdraiata, con un velo che richiama inequivocabilmente il Cristo morto di Andrea Mantegna (4). 

Complementare a essa vi è senza dubbio Rocco, paragonabile ad un moderno Don Chisciotte, per tutto il romanzo acquista le peculiarità di Cristo davanti al Sinedrio: neanche la “futura” morte appena accennata, lo libera del tutto dalle sofferenze terrene.

Per quanto riguarda Pietro la questione è più complessa: in un primo momento presentato come un uomo con tutti i suoi limiti, si manifesta in qualità di moderno Mosè che guida il proprio popolo al di fuori dell’Egitto.  

Infine, Maria, personaggio che si rivela nella propria pienezza soltanto all’ultimo come un colpo di scena, come il raggio di sole che rischiara le nubi dopo la tempesta. Oltre che essere la reale protagonista del romanzo, si comprende come ne sia l’autrice.

Maria non vive e non muore all’interno del romanzo, come re Salomone si erge al di fuori delle vicende tramite una narrazione omnisciente che difficilmente si discosta divagando e supponendo possibili sviluppi all’interno dell’economia della storia.

Il romanzo non ha un vero e proprio finale e, probabilmente, non vuole averlo. È come se finisse la carica al carillon, o le batterie alla radiolina con cui, gli italiani di quelle epoche narrate, ascoltavano tutto il calcio minuto per minuto: s’interrompe quando deve interrompersi. L’opera di Gabriella Schelotto lascia dietro di sé il non detto, l’incompiuto, la nebbia: il romanzo si sarebbe potuto tranquillamente sviluppare lasciando meno zone d’ombra e minor spazio all’interpretazione del lettore con conseguente aumento del numero di pagine. Volutamente, ciò non avviene, regalando al lettore un vecchio album fotografico, un po’ sbiadito, da consultare senza didascalie.

 

 


 

[1) Pieri, 1989, pp. 105-134, passim. Importante magnate patavino, visse a cavallo tra il 1400 e il 1500. Fu il vero e proprio mecenate di Angelo Beolco (Ruzzante) finanziando le sue opere e allestendo un vero e proprio teatro “smontabile” nel giardino della propria villa.

2) Zampa, 2005, p. 30. La Schelotto cita ventuno volte il mare; questo elemento accompagna la narrazione e, insieme alla collina su cui si erge la casa, rimanda ad un paesaggio di Liguria Montaliano; Cfr. vv. 9-10 “Osservare tra frondi il palpitare/lontano di scaglie di mare”.

3) Marotta, 2004, p. 418. Secondo quanto esposto dalla dicotomia linguistica ipotassi/paratassi.

 4) Cfr. Pasolini, 1962.  L’idea d’ispirarsi al quadro del Mantegna è ricorrente nel panorama letterario: anche il cineasta di Casarsa del Friuli, nell’epilogo finale, riprende Ettore moribondo dai piedi, tralasciandone il viso che si confonde con le tinte scure della pellicola.

 

 

 

 

 

 

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